Co-housing, cosa significa davvero?

C’è un tempo, nella vita di tutti, in cui la condivisione fa parte della vita quotidiana. Tutti, da bambini, hanno condiviso gli spazi con i propri genitori, i nonni, i fratelli: qualcosa di talmente ovvio che non viene nemmeno considerata “convivenza”. Arriva l’adolescenza e questa convivenza si fa più difficile. Più si cresce e più aumenta il desiderio di indipendenza, e comunque periodi come l’università e il servizio militare impongono una convivenza forzata con altre persone.

Arrivano le storie importanti, il matrimonio, i figli… e il ciclo ricomincia.

Se guardiamo attentamente, nella vita della maggior parte di noi sono davvero pochi i momenti in cui viviamo soli e godiamo di quella indipendenza tanto agognata. Eppure, al solo nominare la parola “co-housing” c’è un fuggi fuggi generale. 

Ma ha davvero senso, o si tratta di un retaggio di cui sarebbe bene liberarsi?

Forse prima sarebbe opportuno capire cosa è davvero il “co-housing”, invece di ragionare su preconcetti ed esperienza di vita a volte faticose. Perché è vero, forse nostro fratello ci ha reso la vita impossibile in cameretta, o le nostre coinquiline dell’università chiacchieravano ad alta voce fino a tarda notte, ma co-housing non significa nulla di tutto questo (né tornare a vivere con i genitori, vero incubo di moltissimi).

Il temine co-housing risale agli anni ‘60. Jan Gødmand Høyer, architetto danese, prova a creare una comunità in cui le persone non debbano rinunciare alla privacy di un alloggio privato.

Ed è questa la grande differenza rispetto alla convivenza (o co-living) in senso stretto (che pure sta tornando di moda - o forse per necessità - anche nelle grandi metropoli italiane come Milano, dove gli affitti sono così proibitivi da non essere sostenibili da un single): nelle coresidenze le persone dispongono di alloggi privati - bagni, sala, camere da letto - disposti attorno a spazi comuni condivisi coperti e scoperti, quali cucine, lavanderie, spazi per gli ospiti, kindergarden, palestre, biblioteche e via dicendo.

Un modello che funziona? Sì, a patto che l’idea venga condivisa, rispettata e accolta da tutti gli inquilini.

Il co-housing è una vera e propria comunità, dove le persone vivono a stretto contatto, condividono spazi ed esperienze. Si privilegiano mutua assistenza e socializzazione, e rimane poco spazio per l’individualismo. Questo non significa vivere per gli altri, ma presuppone un senso di appartenenza e partecipazione che non può venire meno.

I vantaggi sono molti: risparmio economico ed energetico, minore impatto ambientale, supporto sociale e la presenza costante di una rete di soccorso per qualsiasi evenienza.
 

Quali sono le caratteristiche essenziali di un co-housing?

1. Progettazione del contatto sociale (social contact design): la progettazione degli spazi fisici incoraggia un forte senso di comunità;
2. Spazi e servizi collettivi: parte integrante della comunità, le aree comuni sono pensate per l'uso quotidiano, a integrazione degli spazi di vita privati;
3. Partecipazione dei residenti nei processi di costituzione e gestione della comunità;
4. Stile di vita collaborativo, che favorisce l'interdipendenza, lo sviluppo di reti di supporto e aiuto, la socialità e la sicurezza.


Non è un caso che queste forme di coabitazione siano piuttosto diffuse nei paesi nordici, dove il senso civico è molto sentito.

Seppure un’indagine di Casa.it riveli che ben il 35% degli italiani sarebbe disposto a provare una soluzione simile, i progetti attivi in Italia sono poco più di 40, per un totale di 6-7000 persone.

Eppure, soprattutto per il futuro e in una società che sembra sempre più individualista, realtà come il co-housing sono provvidenziali e rappresentano la speranza di un modo migliore di vivere, dove ognuno abbia i propri spazi senza sentirsi isolato e in mezzo a un mare di sconosciuti.
 

Co-housing, cosa significa davvero?